Quando andai a Hiroshima per la prima volta nel 1967, l’ombra sui gradini era ancora lì. Era l’impronta quasi perfetta di un essere umano rilassato: le gambe larghe, la schiena curva e una mano lungo il fianco mentre aspettava l’apertura di una banca. Alle otto meno un quarto della mattina del 6 agosto 1945, una donna e la sua silhouette furono impresse a fuoco nel granito. Rimasi a fissare quell’ombra per un’ora o forse più: non sarei mai riuscito a dimenticarla. Molti anni più tardi, al mio ritorno, non c’era più: spazzata via, “svanita”, motivo di imbarazzo politico.
Ho trascorso due anni nella realizzazione di un film documentario, The Coming War on China, nel quale prove e testimonianze mettono in guardia contro una guerra nucleare che non è più un’ombra, ma una eventualità concreta. La più massiccia mobilitazione di forze armate usamericane dopo la Seconda guerra mondiale è già ben avviata. Sono localizzate nell’emisfero settentrionale, ai confini occidentali della Russia, e in Asia e nel Pacifico, faccia a faccia con la Cina.
Sottotitoli italiani di Martina Zanette e Riccardo Radici per pandoratv.it
Il grande pericolo che ciò richiama non fa notizia, se non una sepolta e distorta da un bombardamento di falsità mediatiche che fa eco alla paura psicopatica infissa nella coscienza pubblica per gran parte del XX secolo.
Come il rinnovo della Russia post-sovietica, l’ascesa della Cina a potenza economica viene dichiarata una “minaccia esistenziale” al diritto divino degli Stati Uniti di governare e dominare gli affari dell’umanità.
Per controbattere, nel 2011 il presidente Obama annunciò un “pivot to Asia”, un ribilanciamento verso l’Asia, che significava il trasferimento di almeno due terzi delle forze navali usamericane verso l’Asia e il Pacifico entro il 2020. Oggi, più di 400 basi militari USA circondano la Cina con missili, bombardieri, navi da guerra e, soprattutto, armi nucleari. Dall’Australia, procedendo verso nord attraverso il Pacifico, fino al Giappone e alla Corea, e attraverso l’Eurasia fino all’Afghanistan e all’India, queste basi formano, nelle parole di una stratega usamericano, “il cappio perfetto”.
Uno studio condotto dalla RAND Corporation (che fin dal conflitto in Vietnam ha pianificato le guerre usamericane) è intitolato War with China: Thinking Through the Unthinkable (Guerra con la Cina: Analisi dell’impensabile). Su commissione dell’esercito usamericano, gli autori rievocano la Guerra fredda, quando la RAND rese noto lo slogan del suo principale stratega, Herman Kahn: “pensare l’impensabile”. Il libro di Kahn, On Thermonuclear War (La guerra termonucleare), elaborava un piano per una guerra nucleare “possibilmente vittoriosa” contro l’Unione Sovietica. Oggi la sua visione apocalittica viene condivisa da coloro che detengono il potere reale negli Stati Uniti: i militaristi e i neo-conservatori nell’esecutivo, il Pentagono, l’intelligence, l’establishment della “sicurezza nazionale” e il Congresso.
L’attuale Segretario della Difesa, Ashley Carter, un verboso agitatore, afferma che la politica degli USA è quella di combattere coloro “che vedono il predominio usamericano e vogliono sottrarcelo.” A dispetto di tutti i tentativi di rilevare un cambio di rotta nella politica estera, questa è certamente la visione di Donald Trump, i cui insulti alla Cina nel corso della campagna elettorale includevano l’epiteto di “stupratore” dell’economia usamericana. Il 2 dicembre, in quella che è stata una diretta provocazione alla Cina, il presidente eletto Trump ha avuto un colloquio con il presidente di Taiwan, che la Cina considera come una provincia ribelle del paese. Armata di missili usamericani, Taiwan è da lungo tempo una zona critica tra Washington e Beijing.
“Gli Stati Uniti”, ha scritto Amitai Etzioni, docente di Relazioni internazionali alla George Washington University, “si preparano a una guerra con la Cina, una decisione di estrema importanza che finora non è stata sottoposta a un’adeguata valutazione dai funzionari eletti, vale a dire dalla Casa Bianca e dal Congresso.” Questa guerra avrebbe inizio con un “attacco accecante alle strutture cinesi ad accesso vietato, comprese le basi missilistiche di terra e di mare…le armi satellitari e anti-satellitari.”
Il rischio incalcolabile è che “attacchi di profondità nell’entroterra possano essere erroneamente percepiti dai cinesi come un tentativo preventivo di distruggere le loro armi nucleari, mettendoli così spalle al muro dinanzi al terribile dilemma ‘o le usiamo o le perdiamo’ [che porterebbe] a un conflitto nucleare.”
Nel 2015 il Pentagono ha pubblicato il suo Law of War Manual (Manuale di Diritto bellico). “Gli Stati Uniti”, recita, “non hanno sancito alcun trattato le cui norme proibiscano l’uso di armi nucleari in sé, pertanto le armi nucleari sono armi legittime per gli Stati Uniti.”
In Cina, uno stratega mi disse: “Noi non siamo vostri nemici, ma se voi [in Occidente] stabilite che lo siamo, noi dobbiamo prepararci senza indugio.” Le forze armate e l’arsenale della Cina sono più modesti di quelli usamericani.
Tuttavia, “per la prima volta”, ha scritto Gregory Kulacki della Union of Concerned Scientists, “la Cina sta valutando di portare i propri missili nucleari alla massima allerta, così che possano essere lanciati rapidamente in caso di allarme dovuto a un attacco … Ciò comporterebbe un cambiamento significativo e pericoloso nella politica cinese … In effetti, la politica usaméricana sulle armi nucleari è il fattore esterno di maggior peso nell’influenzare chi in Cina sostiene la necessità di innalzare i livelli di allerta delle forze nucleari cinesi.”
Il professor Ted Postol è stato consulente scientifico a capo delle operazioni navali usamericane. Un’autorità del campo delle armi nucleari, Postol mi disse:
“Tutti qui vogliono sembrare dei duri. Vedi, io dovevo essere un duro… Non mi spaventano le questioni militari, non mi spaventa fare minacce; sono un gorilla dal petto villoso. E siamo arrivati a un punto, gli USA sono arrivati a una situazione in cui stanno tutti a mostrare i muscoli, e di fatto è tutto orchestrato dall’alto.”
Io dissi: “Sembra incredibilmente pericoloso.”
“Direi che è un eufemismo.”
Nel 2015, con una notevole discrezione, gli USA hanno organizzato la più grande singola esercitazione militare dalla Guerra fredda. Si trattava di Talisman Sabre: una flotta di navi e bombardieri a lungo raggio ha provato un “piano sperimentale di ASB, battaglia aerea e navale, contro la Cina”, bloccando i corridoi marittimi nello Stretto di Malacca e tagliando l’accesso della Cina ai rifornimenti di petrolio, gas e materie prime dal Medio Oriente e dall’Africa.
Tale è la portata della provocazione, e la paura di un blocco della marina USA, che ha visto la Cina costruire febbrilmente piste d’atterraggio strategiche su barriere coralline e isolotti contesi nell’arcipelago delle Spratly, nel Mar Cinese Meridionale. Nel luglio scorso, la Corte permanente di arbitrato delle Nazioni Unite ha deliberato contro la rivendicazione di sovranità da parte della Cina su queste isole. Benché l’azione legale sia stata intentata dalle Filippine, essa fu portata avanti da legali usamericani e britannici di spicco e poté essere ricollegata alla Segretaria di Stato Hillary Clinton.
Nel 2010, Clinton volò a Manila. Pretese che l’ex colonia usamericana riaprisse le basi militari USA chiuse negli anni ’90 in seguito a una campagna popolare contro la violenza che esse generavano, in particolare a danno delle donne filippine. Dichiarò le rivendicazioni cinesi sulle isole Spratly (che si trovano a più di 12000 chilometri dagli Stati Uniti) una minaccia alla “sicurezza nazionale” usamericana e alla “libertà di navigazione”.
Ricevuti milioni di dollari in armi e attrezzature militari, il governo dell’allora presidente Benigno Aquino ruppe i negoziati bilaterali con la Cina e firmò in segreto un Enhanced Defense Cooperation Agreement (Patto per l’incremento della cooperazione in materia di Difesa) con gli USA. Questo stabiliva, a rotazione, cinque basi usamericane e ripristinava l’odiato provvedimento coloniale secondo il quale i soldati e gli impresari usamericani avevano l’immunità rispetto alla legge filippina.
L’elezione di Rodrigo Duterte ad aprile ha turbato Washington. Duterte, che si definisce un socialista, ha dichiarato: “Nei nostri rapporti con il mondo, le Filippine perseguiranno una politica estera di indipendenza” e ha rimarcato come gli USA non abbiano chiesto scuse per le loro atrocità coloniali. “Romperò con l’America”, ha detto, promettendo di espellere le truppe usamericane. Ma gli USA restano nelle Filippine; e le esercitazioni militari congiunte proseguono.
Nel 2014, sotto la rubrica “information dominance” (voce gergale per manipolazione mediatica, o notizia falsa, su cui il Pentagono spende più di 4 miliardi di dollari), l’amministrazione Obama ha lanciato una campagna propagandistica che faceva apparire la Cina, la maggiore nazione commerciale al mondo, come una minaccia per la “libertà di navigazione”.
La CNN ha aperto la strada, con il suo “reporter per la sicurezza nazionale” che trasmetteva concitato a bordo di un aereo di sorveglianza della marina USA in volo sopra le Spratly. La BBC ha convinto dei piloti filippini terrorizzati a pilotare un monomotore Cessna sopra le isole contese “per vedere come reagirebbero i cinesi.” Nessuno di questi reporter ha chiesto perché i cinesi stessero costruendo piste d’atterraggio lontano dalle proprie coste, o perché le forze armate usamericane si stessero ammassando sulla soglia di casa della Cina.
Il capo designato della propaganda è l’ammiraglio Harry Harris, comandante delle forze armate USA in Asia e nel Pacifico. “Le mie responsabilità”, ha detto al New York Times, “si estendono da Bollywood a Hollywood, dagli orsi polari ai pinguini.” Mai dominio imperiale fu descritto in modo tanto conciso.
Harris fa parte di una struttura di sostegno al Pentagono composta da ammiragli e generali selezionati e da giornalisti e presentatori manovrabili, il cui obiettivo è quello di giustificare una minaccia tanto speciosa quanto quella con cui George W. Bush e Tony Blair giustificarono la distruzione dell’Iraq e di gran parte del Medio Oriente.
A Los Angeles, a settembre, Harris ha dichiarato di essere “pronto ad affrontare una Russia revanscista e una Cina determinata … Se dobbiamo scontrarci stanotte, non voglio che sia uno scontro leale. Se è un duello con i coltelli, voglio portare una pistola. Se è un duello con le pistole, voglio portare l’artiglieria…e tutti i nostri partner con l’artiglieria.”
Questi “partner” includono la Corea del Sud, piattaforma di lancio per il sistema del Pentagono Terminal High Altitude Air Defense (Difesa d'area terminale ad alta quota), noto come THAAD, apparentemente puntato contro la Corea del Nord. Come fa notare il professor Postol, il suo vero bersaglio è la Cina.
A Sidney, Australia, Harris ha lanciato un appello alla Cina affinché “abbattesse la sua Grande Muraglia nel Mar Cinese Meridionale”. L’immagine era sulle prime pagine di tutti i giornali. L’Australia è il “partner” degli USA più ossequioso; la sua élite politica, le sue forze armate, le agenzie di intelligence e le reti mediatiche sono ben integrate in ciò che è noto come “l’alleanza”. La chiusura del Sidney Harbour Bridge per il corteo di automobili di un “dignitario” del governo usamericano in visita non è cosa inusuale. Questo onore è stato tributato al criminale di guerra Dick Cheney.
Benché la Cina sia il principale partner commerciale dell’Australia, da cui dipende gran parte dell’economia nazionale, “combattere la Cina” è l’imposizione dettata da Washington. I pochi dissidenti politici a Canberra rischiano le calunnie maccartiste della stampa di Murdoch. “Voi in Australia siete con noi, qualunque cosa succeda,” disse uno degli ideatori della guerra in Vietnam, McGeorge Bundy. Una delle più importanti basi usamericane è Pine Gap, presso Alice Springs. Fondata dalla CIA, spia la Cina e l’Asia intera, e dà un fondamentale contributo alla guerra omicida di Washington con i droni in Medio Oriente.
A ottobre Richard Marles, portavoce per la difesa del maggior partito di opposizione australiano, il Labor Party, ha richiesto che le “decisioni operative” negli atti provocatori contro la Cina siano lasciate ai comandanti delle forze armate nel Mar Cinese Meridionale. In altre parole, una decisione che potrebbe significare guerra con una potenza nucleare non dovrebbe essere presa da un leader politico eletto o da un parlamento, bensì da un ammiraglio o da un generale.
Tale è la linea del Pentagono, una svolta storica per qualsiasi stato che si definisca una democrazia. L’ascendente del Pentagono su Washington (che Daniel Ellsberg ha chiamato un golpe silenzioso) si riflette nella cifra record di 5000 miliardi di dollari che l’America ha speso in guerre di aggressione a partire dall’11 settembre, secondo uno studio della Brown University. Un milione di morti in Iraq e l’esodo di 12 milioni di rifugiati da almeno quattro paesi ne sono la conseguenza.
L’isola giapponese di Okinawa ospita 32 impianti militari, dai quali gli USA hanno attaccato Corea, Vietnam, Cambogia, Afghanistan e Iraq. Oggi il bersaglio principale è la Cina, con la quale gli abitanti di Okinawa hanno stretti rapporti culturali e commerciali.
Velivoli militari sorvolano costantemente i cieli di Okinawa; talvolta si schiantano contro case o scuole. La gente non può dormire, gli insegnanti non possono insegnare. Ovunque vadano nel loro stesso paese, sono chiusi dentro e gli viene detto di starne fuori.
Un movimento popolare degli abitanti di Okinawa contro le basi è andato sviluppandosi fin dallo stupro di gruppo di una dodicenne ad opera di soldati usamericani nel 1995. Era solo uno di centinaia di crimini simili, molti dei quali non vennero mai perseguiti. A malapena riconosciuta nel resto del mondo, la resistenza ha visto l’elezione in Giappone del primo governatore anti-basi, Takeshi Onaga, e ha costituito un insolito ostacolo per i piani del governo di Tokyo e del primo ministro ultra-nazionalista Shinzo Abe di abrogare la “costituzione di pace” del Giappone.
Nella resistenza milita Fumiko Shimabukuro, 87 anni, sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale, quando un quarto degli abitanti di Okinawa morì durante l’invasione usamericana. Fumiko trovò rifugio con centinaia di altri nella splendida Henoko Bay, che ora si batte per salvare. Gli USA vogliono distruggere la baia per prolungare le piste per i loro bombardieri. “Abbiamo una scelta”, dice Fumiko, “il silenzio o la vita.” Mentre ci riunivamo pacificamente fuori dalla base USA, Camp Schwab, giganteschi elicotteri Sea Stallion si libravano sulle nostre teste per nessun’altra ragione se non quella di intimidirci.
Al di là del Mar Cinese Orientale si trova l’isola coreana di Jeju, santuario semi-tropicale e patrimonio dell’umanità dichiarato “un’isola di pace nel mondo”. Su quest’isola di pace nel mondo è stata costruita una delle basi militari più provocatorie del pianeta, a meno di 650 chilometri da Shangai. Il villaggio di pescatori di Gangjeong è dominato da una base navale della Corea del Sud appositamente costruita per le portaerei, i sottomarini nucleari e i cacciatorpediniere usamericani equipaggiati con sistemi missilistici Aegis, puntati sulla Cina.
Un movimento di resistenza della popolazione a questi preparativi bellici è stato presente a Jeju per almeno un decennio. Ogni giorno, spesso due volte al giorno, abitanti dei villaggi, preti cattolici e sostenitori da tutto il mondo organizzano una messa che blocca i cancelli della base. In un paese in cui le manifestazioni politiche sono spesso proibite, a differenza delle potenti religioni, questa tattica ha prodotto uno spettacolo di grande ispirazione.
Uno dei leader del movimento, Padre Mun Jeong-hyeon, mi ha detto: “Canto quattro canzoni ogni giorno alla base, non importa che tempo fa. Canto anche durante i tifoni, non faccio eccezioni. Per costruire questa base hanno distrutto l’ambiente e la vita degli abitanti, e noi dovremmo testimoniarlo. Vogliono governare il Pacifico. Vogliono isolare la Cina dal mondo. Vogliono essere gli imperatori del mondo.”
Ho preso un volo da Jeju a Shangai per la prima volta in più di una generazione. Quando ero stato in Cina l’ultima volta, il rumore più forte che ricordo era quello dei campanelli di bicicletta; Mao Zedong era morto da poco, e le città sembravano posti bui, divisi tra presentimenti e speranze. In pochi anni Deng Xiaoping, “l’uomo che cambiò la Cina”, divenne il “sommo leader”. Niente mi aveva preparato agli sbalorditivi cambiamenti di oggi.
La Cina presenta squisite ironie, non ultima la casa a Shangai dove Mao e i suoi compagni fondarono segretamente il Partito Comunista della Cina nel 1921. Oggi, la casa è situata nel cuore di un vero distretto commerciale capitalistico: si esce da questo tempio del comunismo con il Piccolo Libro Rosso e un busto in plastica di Mao per essere avviluppati dall’abbraccio di Starbucks, Apple, Cartier e Prada.
Altri tempi: quando USA e Cina erano alleati, contre il Giappone fascista (1941-1945)
Mao ne sarebbe scioccato? Ne dubito. Cinque anni prima della sua grande rivoluzione nel 1949, spedì questo messaggio segreto a Washington. “La Cina deve industrializzarsi”, scrisse. “Ciò si potrà ottenere solo tramite la libera impresa. Gli interessi della Cina e dell’America coincidono, sia in economia che in politica. L’America non ha motivo di temere la nostra non-collaborazione. Non possiamo rischiare alcun conflitto.”
Mao si offrì di andare alla Casa Bianca per incontrare Franklin Roosevelt, poi il suo successore Harry Truman, e poi ancora il suo successore Dwight Eisenhower. Le sue offerte furono seccamente respinte, od ostinatamente ignorate. L’opportunità che avrebbe potuto cambiare la storia contemporanea, evitare le guerre in Asia e salvare un numero incalcolabile di vite andò perduta perché la verità su queste aperture venne negata nella Washington degli anni ’50, “quando la trance catatonica della Guerra Fredda”, ha scritto il critico James Naremore, “afferrò il nostro paese nella sua rigida presa.”
Le falsità mediatiche ampiamente accettate che ancora una volta presentano la Cina come una minaccia appartengono alla stessa mentalità.
Il mondo si sta inesorabilmente spostando verso est; ma la sorprendente visione dell’Eurasia dalla Cina è scarsamente compresa in occidente. La “nuova Via della seta” è una linea di attività commerciali, porti, condotti e treni ad alta velocità che si snoda fino all’Europa. Leader mondiale nelle tecnologie ferroviarie, la Cina ha avviato negoziati con 28 paesi per la costruzione di linee su cui i treni raggiungeranno i 400 chilometri orari. Questa apertura a livello mondiale ha l’approvazione di gran parte dell’umanità e, nel frattempo, sta avvicinando Cina e Russia.
“Io credo nell’eccezionalità americana con tutto me stesso”, ha detto Barack Obama, rievocando il feticismo degli anni ’30. Questo culto moderno della superiorità è l’usamericanismo, il predatore dominante nel mondo. Sotto il liberale Obama, vincitore del Premio Nobel per la Pace, la spesa per le testate nucleari è salita più che sotto qualsiasi altro presidente sin dalla fine della Guerra Fredda. Si sta progettando una mini arma nucleare. Conosciuta come Modello B61 12, essa comporterà, afferma il generale James Cartwright, ex vicepresidente dello Stato maggiore congiunto, che “le dimensioni ridotte [ne rendono l’utilizzo] più facile da concepire”.
A settembre il Consiglio Atlantico, una fabbrica di idee usamericana di stampo ufficialista, ha pubblicato un rapporto che preannunciava un mondo hobbesiano “segnato dal collasso dell’ordine, da violenti estremismi [e] un’era di guerra perpetua.” I nuovi nemici erano una Russia “rinascente” e una Cina “sempre più aggressiva”. Solo l’eroica America può salvarci.
C’è una nota di follia in questo fomentare la guerra. È come se il “secolo americano” (proclamato nel 1941 dall’imperialista usamericano Henry Luce, proprietario del Time) si fosse concluso senza far notizia e nessuno avesse avuto il coraggio di dire all’imperatore di prendere le sue armi e andare a casa.
Il mondo è stato istruito a guardare alla Cina come al nuovo nemico. La Cina è la seconda potenza economia al mondo. Il grande gioco del potere ha richiamato una guerra perpetua. Gli Stati Uniti hanno circondato la Cina con 400 basi militari. Navi da guerra. Bombardieri. Missili. “Il nostro primo presidente, George Washington, disse: ‘Se vuoi la pace, prepara la guerra’.” Il piano prevede di tagliare i rifornimenti cinesi di petrolio, gas e materie prime. “Quando fermeremo questo processo, prima che scateni una guerra?” “L’obiettivo di questo film è quello di spezzare il silenzio: una guerra nucleare non è più impensabile.” L’equivalente della bomba che colpì Hiroshima fu fatta esplodere in queste isole ogni giorno per 12 anni. Questo film vi dirà quello che i telegiornali non raccontano. “Non stanno cercando di governare il mondo. Vogliono impedire all’America di avere il dominio.” “Abbiamo bisogno di un nemico in cui investire tutto questo denaro, e la Cina è il nemico perfetto.” Il segreto dell’America… un’intera nazione usata per testare armi nucleari. “Gli scienziati statunitensi condussero esperimenti umani con le radiazioni per studiare come gli esseri umani assorbano le radiazioni” “Non c’è cosa più spaventosa di questa.” “I cinesi 2000 anni fa costruirono la Grande Muraglia per tenere fuori i barbari, non per invadere le loro terre.” “Ogni volta che osserviamo la Cina su una mappa, possiamo vedere che essa è la causa primaria di tutti i nostri problemi in Asia.” Questo film è un avvertimento. “I cinesi vogliono dominare un’enorme fetta del pianeta.” Dal produttore pluripremiato John Pilger “È ora di mostrare al mondo intero che l’America è tornata!” “Compatisco il Paese che tentasse di opporsi a noi: ci perfezioniamo sempre di più, ancora e ancora.”
Il nuovo film di John Pilger, The Coming War on China, è nei cinema del Regno Unito da lunedì 5 dicembre 2016 e su ITV alle 22:35 di martedì 6 dicembre sia nel Regno Unito che in Irlanda. L’uscita nei cinema australiani sarà a febbraio 2017 e il film sarà trasmesso a seguire su SBS.
“L’obiettivo di questo film è quello di spezzare il silenzio: gli Stati Uniti e la Cina potrebbero benissimo essere avviati alla guerra, e un conflitto nucleare non è più impensabile” – John Pilger
Scopri di più sul film da John Pilger in persona sul sito ufficiale ‘Coming War’ e nell’edizione dicembre 2016 del New Internationalist (guest editor John Pilger).
Questo lungo e innovativo documentario del pluripremiato giornalista e produttore John Pilger è il suo sessantesimo film per la televisione. In uscita immediatamente dopo l’elezione del presidente Trump, il film è una delle indagini più tempestive e urgenti di John Pilger ed è insieme un ammonimento e la storia ispiratrice della resistenza dei popoli.
Girato nel corso di più di due anni tra le isole Marshall, il Giappone, la Corea, la Cina e gli Stati Uniti, The Coming War on China svela la guerra che si prepara alle porte della Cina. Più di 400 basi militari statunitensi circondano oggi la Cina in ciò che uno stratega definisce "il cappio perfetto".
Mettendo insieme rari documenti d’archivio e formidabili interviste, Pilger svela la storia segreta dell’America nella regione: la distruzione di molte delle forme di vita nelle isole Marshall, un tempo un paradiso del Pacifico, con un’esplosione equivalente a quella che colpì Hiroshima ogni giorno per 12 anni, e il progetto top secret 4.1 ('Project 4.1') che ridusse la popolazione in ratti da laboratorio per il nucleare.
Pilger e la sua troupe hanno noleggiato un aereo fino all’isola irradiata di Bikini, dove la bomba a idrogeno del 1954 ha avvelenato l’ambiente in maniera irreparabile. Pilger riferisce: "Mentre il mio aereo volava basso sull’atollo di Bikini, la laguna smeraldina sotto di me è scomparsa all’improvviso in un immenso buco nero, un vuoto mortale. Quando sono sceso dall’aereo, le mie scarpe segnavano “pericolo” sul contatore Geiger. Quasi tutto era irradiato. Le palme crescevano in posizioni bizzarre, senza piegarsi alla brezza. Non c’erano uccelli. Era la visione di quel che il mondo può aspettarsi se si arriva a una guerra tra due potenze nucleari. "
Nelle interviste chiave (dai pianificatori della guerra al Pentagono in quella che oggi è la Washington di Donald Trump, ai membri della nuova classe politica in Cina) il film di Pilger sfida l’idea che la più grande nazione commerciale al mondo sia il nemico.
The Coming War racconta anche dello spirito umano e della nascita di una straordinaria resistenza in luoghi remoti. Sull’isola giapponese di Okinawa, che ospita ben 32 basi statunitensi, e dove la popolazione vive accanto a recinzioni di filo spinato e sotto lo stridore dei velivoli militari, gli abitanti di Okinawa stanno sfidando con successo l’enorme potere militare.
Una delle leader della resistenza è Fumiko Shimabukuro, 87 anni. Sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale, trovò rifugio nella splendida Henoko Bay, che ora si batte per salvare. Il governo giapponese vuole coprire con un terrapieno gran parte della baia per prolungare le piste destinate ai bombardieri statunitensi. “Per noi”, dice Fumiko, “è una scelta tra il silenzio e la vita.”
Al di là del Mar Cinese Orientale di trova l’isola coreana di Jeju, un santuario semi-tropicale e patrimonio dell’umanità dichiarato “un’isola di pace nel mondo”. Su quest’isola di pace nel mondo sorge oggi una delle più grandi basi militari in Asia, il cui bersaglio è la Cina, appositamente costruita per le portaerei, i sottomarini nucleari e i cacciatorpediniere statunitensi armati di missili.
Per oltre un decennio la popolazione di Jeju ha opposto alla base una resistenza pacifica. Ogni giorno, due volte al giorno, contadini, abitanti dei villaggi, preti e sostenitori da tutto il mondo organizzano una messa che blocca i cancelli. Ogni giorno, la polizia porta via di peso i preti, i fedeli e l’altare. È uno spettacolo silenzioso e commovente. Padre Mun Jeong-hyeon racconta: "Canto quattro canzoni ogni giorno alla base. Canto anche durante i tifoni, non faccio eccezioni."
Da Jeju, Pilger è volato a Shanghai. "Quando sono stato in Cina l’ultima volta", dice, "il rumore più forte che ricordo era quello dei campanelli di bicicletta; Mao Zedong era morto da poco, e le città sembravano posti bui, minacciosi. Niente mi aveva preparato agli sbalorditivi cambiamenti avvenuti.”
Pilger intervista Lijia Zhang, giornalista di Beijing e tipico membro di una nuova classe di schietti anticonformisti. Il suo libro più venduto ha un titolo ironico, Il socialismo è grande! È cresciuta nel caos e nella brutalità della Rivoluzione culturale e ha vissuto negli Stati Uniti. Da critica del proprio Paese, Zhang rifiuta stereotipi obsoleti. "Molti Americani pensano", afferma, "che il popolo cinese viva un’esistenza miserabile e repressa, senza alcuna forma di libertà. Il [concetto del] pericolo giallo non li ha mai abbandonati... Non hanno idea del fatto che ci sono circa 500 milioni di persone che stanno uscendo dalla povertà."
La Cina presenta squisite ironie, non ultima la casa a Shangai dove Mao e i suoi compagni fondarono segretamente il Partito Comunista della Cina nel 1921. Oggi, la casa è situata nel cuore di un vero distretto commerciale capitalistico: i turisti escono da questo tempio del comunismo con il loro busto in plastica di Mao per essere avviluppati dall’abbraccio di Starbucks, Apple e Cartier.
Eric Li, capitalista di rischio a Shanghai e sociologo, racconta a Pilger: "Faccio una battuta: in America puoi cambiare partito, ma non puoi cambiare politica. In Cina non puoi cambiare partito, ma puoi cambiare politica. I cambiamenti politici avvenuti in Cina negli ultimi 66 anni sono stati probabilmente più estesi, più ampi e più intensi che in qualunque altro grande paese di cui si abbia memoria."
L’attenzione mondiale e le ricchezze si stanno spostando verso est, e il dominio usamericano sta volgendo al termine. Un tempo soggiogata, disprezzata and depauperata, la Cina sta inesorabilmente ascendendo alla posizione di banca e potenza manifatturiera e costruttrice del mondo. Si lascerà che ciò avvenga in modo pacifico? "Abbiamo bisogno di rendere l’America forte ancora una volta", dice il presidente eletto Trump. "Dobbiamo rendere l’America di nuovo grande... e abbiamo bisogno di vittorie."
Scritto, diretto e prodotto da John Pilger
Editor Joe Frost
Line Producer Sandra Leeming
Produttore esecutivo Christopher Hird
Assistente alla regia Bruno Sorrentino
Chief Archive Producer Jacqui Edwards
Archive producers Paul Gardner, Jim Anderson
Riprese Rupert Binsley, Owen Scurfield, Bruno Sorrentino, Joseph Zafar
Suono Zubin Sarosh, Giles Khan, Jouni Elo, Cooper Seng
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