Sta facendo molto
discutere il servizio di Alessandro Giuli sulle origini del debito
pubblico italiano andato in onda qualche giorno fa all’interno del
nuovo programma di Rai 2, “Povera Patria”. Secondo i critici –
tra cui luminari dell’economia come Riccardo Puglisi, Mario
Seminerio e, ça va sans dire, l’immancabile Luigi Marattin -, le
colpe del servizio sarebbe sostanzialmente tre: di aver
“propagandato” sulla televisione pubblica la presunta madre di
tutte le bufale economiche: il signoraggio (ussignor!); di aver
individuato nel cosiddetto “divorzio” del 1981 tra Banca d’Italia
(BdI) e Tesoro la causa principale della successiva esplosione del
debito pubblico italiano; e di aver insinuato – seppur
indirettamente – che la soluzione al problema del debito pubblico
sarebbe di tornare ad un regime simile a quello pre-divorzio, cioè
di monetizzazione (più o meno parziale) del deficit/debito pubblico
da parte della banca centrale.
Tanto per
cominciare, cosa dice il servizio? Esso sostiene che le cause del
debito pubblico italiano sarebbero da sostanzialmente da
rintracciarsi nel signoraggio, che viene descritto – in maniera a
dir poco approssimativa – come «il guadagno del “signore” che
stampa la nostra moneta, che si fa pagare il valore di quella moneta,
da cui sottrae il costo per produrla». Il servizio sostiene che la
storia del signoraggio in Italia si snoda in tre fasi: una prima fase
in cui lo Stato italiano, «attraverso la banca centrale di sua
proprietà stampa moneta e la presta a se stesso per offrire servizi
e [finanziare le opere pubbliche]»; una seconda fase in cui – come
conseguenza del divorzio – «la banca centrale diventa un istituto
privato ma continua a stampare moneta prestandola allo Stato con
tanto di interessi», facendo così lievitare il debito pubblico; e
una terza fase in cui «la fine della lira, l’adozione dell’euro
e la nascita della BCE completano l’espropriazione [della sovranità
dell’Italia]».
Ora, per capire se
il servizio sia veritiero nella sua ricostruzione, per quanto
semplicistica, dei fatti o se si tratti invece di una «colossale
bufala», come ha dichiarato Marattin, dobbiamo per prima cosa fare
chiarezza su cosa sia il signoraggio. La prima cosa da notare – con
buona pace di tutti gli anti-bufalari da salotto che si sono
scandalizzati a sentir nominare la parola “signoraggio” sulla TV
di Stato – è che il signoraggio esiste. E questo sarebbe già
sufficiente per rimandare a settembre il 99 per cento degli
anti-bufalari di cui sopra. (A chi nutrisse dei dubbi in merito
suggerisco di visitare le pagine dedicate all’argomento sui siti
della Banca d’Italia e della BCE).
Di cosa si tratta
esattamente? Innanzitutto, va detto che esistono diverse definizioni
del signoraggio in ambito accademico. Tuttavia, le due definizioni
più comunemente accettate sono le seguenti. Una prima definizione di
signoraggio è legata all’evoluzione della moneta di Stato e
storicamente riguarda la differenza tra il costo di produzione della
moneta e il suo valore nominale. Il fatto che il primo fosse
notevolmente più basso del secondo investiva colui che batteva la
moneta – lo Stato o, appunto, il signore – di un evidente potere
– definito, non a caso, “potere di signoraggio” –, in quanto
poteva creare, dal nulla o quasi, il proprio potere di acquisto.
Questa forma di signoraggio è solitamente chiamata “signoraggio
monetario”. Inoltre, quando un comune cittadino portava un pezzo
d’oro alla zecca pubblica per farselo coniare – una prassi comune
fino all’Ottocento –, lo Stato si faceva pagare questo “servizio”
trattenendo una parte dell’oro portato. Questo era il cosiddetto
“diritto di signoraggio”. Se un tempo il valore intrinseco della
moneta era determinato dalla quantità di metallo prezioso contenuto
nella moneta, con l’avvento delle banconote prime e della moneta
elettronica poi il “costo di produzione” della moneta è sceso
praticamente a zero. Per cui, più che la differenza tra costo di
produzione e valore nominale della moneta, per signoraggio monetario
oggi si intende, più semplicemente, il potere degli Stati che
dispongono della sovranità monetaria di creare la propria moneta dal
nulla e di aumentare così il proprio potere di acquisto.
Una seconda
definizione di signoraggio descrive lo stesso non in termini del
potere d’acquisto derivato dalla possibilità di creare moneta a
costo zero (o quasi) ma in termini degli interessi maturati in base
al prestito della suddetta moneta a terzi, da intendersi dunque
primariamente come moneta-credito. Per semplicità possiamo chiamare
questa forma di signoraggio “signoraggio da interessi”. Secondo
la definizione che troviamo sul sito della BCE, tali interessi sono
da intendersi come «[g]li interessi maturati dalla banca centrale
sui finanziamenti concessi [alle banche commerciali] oppure i
rendimenti da essa percepiti sulle attività acquisite»,
principalmente titoli di Stato. I primi, dunque, dipendono dai
prestiti concessi dalla banca centrale alle banche commerciali, che
pagano un interesse sulla liquidità presa in prestito dalla banca
centrale; i secondi, perlopiù, dagli interessi maturati sui titoli
di Stato acquistati dalla banca centrale, per esempio (ma non solo)
attraverso i cosiddetti programmi di “quantitative easing”. Su
questo punto c’è da dire che pressoché ovunque – ivi incluso
nell’eurozona, sebbene in questo caso la realtà sia un po’ più
complessa – i redditi da signoraggio maturati dalla banca centrale
vengono poi rigirati ai rispettivi governi.
Riguardo al
signoraggio da interessi, va sottolineato come esso non riguardi
(più) solo gli Stati ma anche le stesse banche commerciali, che nel
sistema attuale non intermediano i risparmi esistenti ma creano
denaro (e depositi) dal nulla, esattamente come le banche centrali,
che poi prestano agli operatori economici (famiglie, imprese e
governi). Anzi, oggi – e su questo ci sarebbe molto da dire ma lo
faremo in un’altra sede – la cosiddetta moneta bancaria
rappresenta la stragrande maggioranza del denaro in circolazione
nell’economia, secondo percentuali che nelle economie avanzate
vanno dal 95 al 99 per cento del totale, come nel caso dell’eurozona.
Sarebbe a dire che per ogni euro emesso dalla BCE sono in
circolazione altri nove euro creati dal settore finanziario. Dunque
va da sé che oggi anche le banche private godano di un diritto di
signoraggio, per quanto il valore effettivo di quest’ultimo sia
notoriamente difficile da calcolare, essendo dipendente da numerosi
fattori: i tassi di interesse praticati dalla banca centrale, il
tasso di inflazione, ecc. Tuttavia, c’è chi ci ha provato.
Sulla base di quanto
detto, possiamo ritenere corretta la ricostruzione fornita dal
servizio e soprattutto l’importanza assegnata al signoraggio nella
crescita del debito pubblico italiano? In parte sì. È indubbio,
infatti, che prima del divorzio lo Stato italiano facesse ampio uso
del signoraggio – sia quello monetario che quello da interessi –
per ridurre i propri costi di finanziamento. L’assetto
istituzionale precedente al divorzio, infatti, prevedeva due canali
tramite i quali il Tesoro poteva finanziarsi presso la Banca
d’Italia: esso disponeva di un conto corrente presso la banca
centrale, chiamato “conto corrente di tesoreria”, e aveva inoltre
la possibilità di vendere i titoli di Stato che emetteva
direttamente alla Banca d’Italia. Per quanto riguarda il primo
canale, il Tesoro poteva attingere a uno “scoperto di conto” –
un fido in pratica – sul proprio conto presso la BdI, fino al 14
per cento della propria spesa di bilancio. In altre parole, la banca
centrale finanziava una parte della spesa del Tesoro attraverso la
creazione di denaro dal nulla, che veniva poi accreditato sul conto
del Tesoro. Il secondo canale consisteva nell’impegno della Banca
d’Italia ad assorbire tutti i titoli di Stato non collocati presso
il pubblico (investitori e famiglie) sul mercato primario,
finanziando quindi gli ampi disavanzi del Tesoro con emissione di
base monetaria. Questo, ovviamente, permetteva anche al Tesoro di
fissare il tasso d’interesse sul mercato primario.
A prescindere dai
dettagli tecnici, il punto centrale è che nell’era pre-divorzio il
“debito” accumulato dal Tesoro nei confronti della banca centrale
non costituiva assolutamente un debito reale verso essa. Nel caso del
conto corrente di tesoreria, si trattava molto semplicemente di un
debito che non doveva mai essere ripagato (se non per una scelta
volontaria da parte del Tesoro stesso) e che dunque poteva crescere
illimitatamente nel corso del tempo. Nel caso dei titoli di Stato
acquistati dalla banca centrale, invece, nel momento in cui questi
giungevano a maturazione, il Tesoro si limitava ad emettere altri
titoli, per un ammontare maggiore di quelli in scadenza, che poi
rivendeva sempre alla Banca d’Italia. E così, potenzialmente,
all’infinito. Come se non bastasse, anche gli interessi pagati dal
Tesoro alla Banca d’Italia venivano poi restituiti al Tesoro stesso
(“signoraggio da interessi”) e quindi per quest’ultimo si
trattava a tutti gli effetti di un debito a costo zero, equivalente
al finanziamento di una parte del fabbisogno con moneta. Questo
consentiva allo Stato di introdurre moneta nell’economia reale in
base alle esigenze necessarie a promuovere la piena occupazione e a
fornire i servizi pubblici essenziali, oltre a finanziare le funzioni
pubbliche.
In quest’ottica,
risulta evidente come il debito pubblico, in un regime di
cooperazione tra banca centrale e Tesoro, non sia altro che un debito
che un ramo dello Stato ha nei confronti di un altro ramo dello
Stato: un debito, in altre parole, che lo Stato ha nei confronti di
se stesso e dunque, a tutti gli effetti, fittizio. Come riconosceva
un economista tutt’altro che radicale come Luigi Spaventa già nel
1984: «[L]o stock di base monetaria creata tramite il canale del
Tesoro può essere considerato un debito solo convenzionalmente. Ciò
si vede bene qualora si consolidi il Tesoro con la banca centrale: in
questo caso manca un vero e proprio debito corrispondente alla base
monetaria creata dalla Banca d’Italia per conto del Tesoro, e in
ciò consiste l’essenza del potere del signoraggio».
Per buona parte del
dopoguerra questa pratica fu considerata del tutto normale, ed è
quello che ha permesso di mantenere basso il rapporto debito/PIL
(senza considerare, come detto, che una buona percentuale di quel
debito poteva considerarsi “fittizio”), anche a fronte di
disavanzi primari (cioè al netto della spesa per interessi)
piuttosto significativi, soprattutto negli anni Settanta. Fin qui,
dunque, la descrizione del servizio sulla “prima fase del
signoraggio” – quella pre-divorzio – risulta essere piuttosto
aderente alla realtà.
Sulla descrizione
del divorzio, invece, il servizio prende qualche cantonata. Tanto per
cominciare, cosa fu il divorzio? Si trattò di una decisione (mai
ratificata dal Parlamento) in cui, nel 1981, l’allora ministro del
Tesoro Beniamino Andreatta e il governatore della Banca d’Italia
Carlo Azeglio Ciampi posero fine, perlomeno da un punto di vista
formale, all’obbligo per la banca centrale di acquistare sul
mercato primario i titoli invenduti. Da quel momento in poi, dunque,
gli acquisti di titoli di Stato sul mercato primario da parte della
Banca d’Italia cominciarono rapidamente a ridursi, aumentando la
quantità di titoli che il governo doveva piazzare presso i privati a
tassi di mercato; come disse Andreatta, «[d]a quel momento in avanti
la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni
asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato».
Contestualmente, la Banca d’Italia alzò drasticamente i tassi di
interesse. Il combinato disposto di questi due fattori – unito alla
riduzione del tasso d’inflazione, per effetto della stretta
monetaria della BdI, e al rallentamento del tasso di crescita –
fecero schizzare verso l’alto i tassi di interesse reali (cioè al
netto dell’inflazione) sui titoli Stato.
È importante notare
che tutto ciò era funzionale alla partecipazione dell’Italia al
Sistema monetario europeo (SME), l’accordo di cambi semifissi a cui
l’Italia aveva aderito nel 1979, che imponeva al paese di adeguare
i propri tassi di interesse ai tassi vigenti nei mercati europei
(soprattutto quello tedeschi) e presupponeva la riduzione del gap
inflazionistico tra l’Italia e gli altri paesi europei. A questo
proposito, va sottolineato come l’alto tasso d’inflazione
registrato dall’Italia negli anni Settanta non fosse una
conseguenza della politica di monetizzazione del deficit/debito ma
era dovuto principalmente a fattori esogeni, in primis lo shock
petrolifero del 1973, ulteriormente inaspriti dal duro scontro
distributivo in corso nel paese.
Ad ogni modo, è
indubbio che una delle conseguenze principali del divorzio (e,
indirettamente, dello SME) fu quella di far letteralmente esplodere
il debito pubblico. Come riconosciuto dallo stesso Andreatta, «la
riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi
in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema
per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e
l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto
nazionale». Basti pensare che nel corso degli anni Ottanta il
rapporto debito/PIL dell’Italia passò dal 58,5 per cento del 1981
a poco meno del 100 per cento. E questo nonostante il fatto che il
saldo primario dello Stato italiano (la differenza tra entrate e
uscite al netto della spesa per interessi), che nell’anno del
divorzio registrava un disavanzo del 5,8 per cento, nel corso degli
anni Ottanta si sia progressivamente ridotto, fino a diventare
positivo a inizio anni Novanta (rimanendo tale fino ai giorni
nostri). In altre parole, il debito pubblico italiano è deflagrato
proprio nel periodo durante il quale lo Stato italiano è diventato
risparmiatore netto. Da ciò si evince quanto sia fallace la vulgata
secondo cui l’aumento del debito sarebbe da imputare alla “spesa
pubblica fuori controllo” dei ruggenti anni Ottanta; al contrario,
la dinamica del debito è esclusivamente imputabile alla scelta,
eminentemente politica, di far esplodere i tassi di interesse pur di
rimanere nello SME.
A tal proposito, va
sottolineato che, più che l’aumento del rapporto debito/PIL in sé,
ad essere particolarmente grave era il fatto che ciò avveniva in un
regime istituzionale di progressiva perdita della sovranità
monetaria, per cui quello che prima era un debito largamente
“fittizio” adesso diventava drammaticamente reale, data
l’impossibilità da parte dello Stato, soprattutto a partire dai
primi anni Novanta, di controllare i tassi di interesse e/o di
monetizzare il debito con nuova moneta creata dal nulla; questo
esponeva il paese al rischio reale di default, che in seguito (1992 e
2011) sarebbe poi stato usato per obbligare il paese a ulteriori
“inevitabili” misure di rigore fiscale.
In questo senso, il
servizio ha ragione a rinvenire nel divorzio la causa scatenante del
successivo aumento del debito pubblico. D’altronde, è lo stesso
autore del divorzio a riconoscerlo. Tuttavia, sostenere che il
problema è che a partire dal 1981 la Banca d’Italia ha cominciato
a «prestare [soldi] allo Stato con tanto di interessi» rappresenta
una semplificazione al limite della mistificazione: anche prima la
BdI prestava soldi allo Stato “con tanto di interessi”, solo che
quegli interessi erano tenuti volutamente bassi (e comunque tornavano
indietro allo Stato in virtù del signoraggio da interessi). Il vero
problema è, piuttosto, la riduzione – dal 1981 in poi – del
signoraggio monetario, sotto forma di monetizzazione della spesa e
del debito. È, inoltre, del tutto falsa l’idea che nel 1981 la
Banca d’Italia sia «diventata un istituto privato». Come
stabilito dalla legge bancaria del 1936, la BdI era ed è tutt’ora
un istituto di diritto pubblico. La cassazione lo ha ribadito il 21
luglio 2006, dove ha affermato che la Banca d’Italia «non è una
società per azioni di diritto privato, bensì un istituto di diritto
pubblico secondo». La proprietà può quindi essere di soggetti
privati, ma la sua gestione ha un ruolo pubblicistico, come compiti e
poteri.
È vero che tra gli
azionisti della BdI oggi figurano diverse banche private ma questa è
una conseguenza del fatto che diversi istituti di credito (all’epoca
pubblici) che nel corso del tempo sono entrati nel suo capitale sono
stati successivamente privatizzati (nei primi anni Novanta). È
altrettanto vero che le banche in questione percepiscono una parte
degli utili – e del reddito da signoraggio, come vedremo più giù
– della Banca d’Italia, ma in misura del tutto trascurabile. Chi
scrive ritiene, ovviamente, che sarebbe auspicabile che la banca
centrale fosse interamente di proprietà dello Stato; ma il punto da
cogliere è che la proprietà della BdI è un aspetto del tutto
secondario rispetto al vero problema: l’alienazione alla BCE
dell’emissione di moneta e della determinazione dei tassi di
interesse.
E qui arriviamo alla
“terza fase del signoraggio” descritta nel servizio:
l’introduzione dell’euro. Che questo passaggio abbia sancito la
definitiva espropriazione del potere di signoraggio monetario dello
Stato italiano mi pare pacifico. Prima col divorzio e poi con la
ratifica del Trattato di Maastricht – che rese effettiva la
separazione tra Banca d’Italia e Tesoro, fino a quel momento mai
concretizzatasi appieno, sancendo in un colpo solo sia l’abolizione
del conto corrente di tesoreria (che era rimasto in vigore anche in
seguito al divorzio), sia il divieto assoluto di intervento della
banca centrale sul mercato primario dei titoli di Stato – si
consumarono infatti due passaggi fondamentali di un processo
decennale, che culminerà nell’introduzione della moneta unica,
finalizzato a privare lo Stato italiano della sua sovranità
monetaria e di conseguenza i cittadini della loro sovranità
democratica – data l’impossibilità per questi di determinarne
democraticamente gli indirizzi di politica economica in assenza di
sovranità monetaria –, rendendo lo Stato di fatto dipendente dai
mercati finanziari (e dalla “buona volontà” della BCE) per le
sue necessità di fabbisogno pubblico, tanto nella determinazione del
volume dello stesso quanto nel costo della porzione finanziata in
disavanzo.
Un punto che va
sottolineato è che, pur avendo rinunciato al suo potere di
signoraggio monetario, la Banca d’Italia continua a ricevere una
quota dei redditi da signoraggio monetario maturati dalla BCE
(redistribuiti alle varie banche centrali sulla base della loro
partecipazione al capitale della BCE), una buona parte dei quali
viene poi rigirata allo Stato italiano (mentre una piccola parte di
essi viene destinata agli azionisti privati della banca stessa). Il
problema, semmai, è che questo tende a produrre una dinamica
perversa di redistribuzione di risorse dai paesi più deboli verso
quelli più forti: i primi, infatti, tendono a pagare tassi di
interesse più alti ma a detenere quote di capitale più basse dei
secondi. Trattasi comunque di poca roba di fronte all’immenso costo
economico e sociale derivante dalla perdita del signoraggio
monetario.
Per concludere,
possiamo dire che il servizio – al netto di qualche imprecisione e
di qualche corbelleria – ha descritto una sostanziale verità:
l’esplosione del debito pubblico italiano è in larga misura
riconducibile alla perdita da parte dello Stato del potere di
signoraggio monetario. Con buona pace di tutti i luminari
dell’economia che hanno gridato allo scandalo.
Un discorso a parte
meriterebbe l’idea secondo cui ritornare ad un regime di
monetizzazione del deficit/debito – e più in generale di sovranità
monetaria – rappresenterebbe una catastrofe, ma ce ne occuperemo in
un’altra occasione.
Thomas Fazi - L'Antidiplomatico
30/01/2019
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